Diventare italiani: gruppo dominante, sospetto e (piccole) prepotenze quotidiane

Immagine tratta dal sito cinaffari.com
Immagine tratta dal sito cinaffari.com

La narrazione che segue e le relative riflessioni riguardano un evento decisamente nuovo nella mia esperienza di cittadino impegnato nel lavoro educativo e di studioso dei fenomeni sociali.
Venerdì scorso avevo appuntamento con un amico di origine cinese ad un supermercato a Vicenza per fare la spesa prima di cenare insieme. Aveva appena trovato alloggio in città ed era la prima volta che facevo visita alla sua nuova dimora.
Una volta giunti alla cassa, la cassiera – una giovane donna di origine straniera a giudicare dai tratti somatici e dall’accento – vede che il mio amico ha acquistato della birra e gli chiede la carta d’identità. Lui sorpreso, ma senza esitazione, estrae il documento sorridendo e dice: “Mamma mia. Sembro così giovane!?”. Io invece ho una reazione quale mai prima d’ora ho avuto e le dico, prima ancora che lui le porga la carta d’identità (ha 26 anni): “È maggiorenne. È proprio necessario? Non le viene in mente quando a lei chiedono il permesso di soggiorno oppure l’abbonamento dell’autobus solo perché è straniera?”. E lei prontamente replica: “Sono cittadina italiana”. Non ricordo quali argomentazioni ho portato sempre con rispetto, ma in uno stato visibilmente alterato, e lei per fare ironia ha proseguito: “Che esagerato. Dovrebbe essere contento che dimostra meno anni di quelli che ha”. E io ho pensato “stronza!”. Me ne sono andato senza salutare. Mi sono scusato con il mio amico per la reazione avuta, cosa che d’altro canto ha apprezzato.
Una volta a casa mi dice: “Non capisco perché questo atteggiamento di razzismo (così lo ha definito!). Tra l’altro non è la prima volta che mi vede. Io una volta ero infastidito quando mi chiedevano i documenti, oggi semplicemente li mostro per non sollevare problemi”. Ed io mi sono chiesto: perché dover subire e arrendersi alla prepotenza dei piccoli funzionari che invece dell’intelligenza sfruttano il potere che gli concede la loro posizione? Credo che tutti conoscano il celebre film di Mathieu Kassovitz “L’odio” (1995) che porta in scena proprio questa dinamica di sospetto continuo nei confronti di chi dal soma viene identificato come straniero (e in quel caso delinquente e pericoloso), nonostante magari sia nato sul posto.
Avrei voluto essere più efficace nella comunicazione con la giovane donna, ma la rabbia del momento non mi ha permesso di essere lucido. Una serie di riflessioni, quindi, sono sopraggiunte successivamente e le ho condivise con il mio amico. In particolare mi è saltato all’occhio proprio il fatto che lei, una volta passata dalla parte “del giusto”, “del potere”, “del gruppo dominante” (“sono cittadina italiana” ci ha tenuto a precisare), si è dimenticata di tutte le prepotenze che ha dovuto subire da parte dei “tutori della legge e del buon costume” (oppure non le hai mai subite?).
Le dinamiche di controllo e di oppressione si riproducono continuamente se non vengono rielaborate e trasformate. Anche chi ne è stato vittima ne è capace (la vittima che diventa carnefice). Quotidianamente gli stranieri e i figli di stranieri in Italia devono mandar giù rabbia e frustrazione per questi atteggiamenti di banalità del male. In un caso è il sospetto sull’etnicità, ma può essere anche una discriminazione basata sull’età anagrafica dichiarata. Il problema è sempre il sospetto. Ti dico che sono maggiorenne, prendi per buona la mia dichiarazione. Anche se sono cinese.
Se diventare italiano significa diventare prepotente, credo che dovremmo farci qualche domanda. Sull’essere italiani, sull’atteggiamento delle istituzioni, sulle nostre leggi e sulle tutele che dovrebbero dare a chi, di fronte ad una richiesta di documenti senza piena giustificazione, si sente umiliato e non può rifiutare senza incorrere in ritorsioni di chi fa sfrutta il proprio ruolo per esercitare un piccolo potere anche personale.

Massimo Modesti

Pubblicato da Massimo Modesti, Ph.D.

Formatore, consulente e antropologo sociale, mi occupo di fornire conoscenze e strumenti per potenziare l'efficacia della leadership e della gestione di un team. Sono esperto di diversità e inclusione: mi piace aiutare a promuovere ambienti di lavoro dove tutti possano dare il proprio contributo e sentirsi ugualmente apprezzati nelle proprie caratteristiche personali.

5 pensieri riguardo “Diventare italiani: gruppo dominante, sospetto e (piccole) prepotenze quotidiane

  1. siamo abituati a dividere lo stigma secondo due gruppi, gli stigmatizzati e i normali, ma lo stigma è un processo sociale a due in cui ciascun individuo rischia di rientrare in ambedue i ruoli, almeno per certi ambiti o periodi della vita. mi hai fatto venire in mente un altro fatto molto conosciuto. Nel 1991 una transessuale viene espulsa perché nata maschio dal Michigan Womyin’s Music Festival, un evento per sole donne. Nel giro di pochi anni si formalizza nei pressi del festival il Camp Trans, un picchetto votato alla contestazione dell’esclusione, ed il dibattito esplode: chi sono le vere donne? Tra la posizione di totale divieto di partecipazione alle trans e quella di consenso per chiunque vivesse la propria vita quotidiana quale donna, vi era la posizione di un gruppo di transessuali che voleva limitare l’accesso solo alle persone che si erano sottoposte ad RCS.ritengo cmq che le discriminazioni da parte di chi ha conosciuto l’essere discriminato siano il frutto della necessità di riconoscimento, il quale ha il rischio di far desiderare di rientrare nella normalizzazione, la quale si sa, per essere evidente ha bisogno della definizione di una anormalizzazione … insomma, siamo nel campo delle dinamiche malate del sistema di gestione attuale che limita il riconoscimento entro i limiti di uno standard definito da chi?

  2. Non entro in profondità in questioni che conosco poco ma sinceramente, posto che le tue riflessioni possano essere giuste, mi sembra che in questo caso vadano troppo oltre. La carta d’identità è stata chiesta per verificare la maggiore età, puol darsi che sia dovuta ad una certa esagerata solerzia nell’applicare la legge che magari questa cassiera, anche in quanto immigrata, tiene a rispettare anche più degli altri. Può avere sbagliato nel valutare l’età, questo sì, ma non era una domanda di documenti così a cuor sereno, ingiustificata. Avevo 23 anni quando a Londra mi domandavano sempre la carta d’identità nei supermercati per prendere una lattina di birra. E non ho mai dimostrato meno anni di quelli che ho. Però non me la sono mai presa. Non ho mai sospettato che fosse una forma di razzismo. Che poi la cassiera abbia detto “sono cittadina italiana” può essere un atteggiamento un po’ canzonatorio e di difesa, in risposta ad una accusa su quello che è un suo diritto fare: chiedere la carta d’identità. Poi, se parliamo di “diventare parte del gruppo dominante”, ci sono molti esempi di meridionali trasferiti a nord e divenuti fan sfegatati di quella parte della Lega più chiusa e fanatica. Questo si. Ma questo è un altro discorso. In questo caso, secondo me, può essere che sia stato tu a partire da un pregiudizio (e la tua alterazione potrebbe essere già un sintomo). Puol darsi anche di no ma, alla luce dei fatti, è difficile dire di più, bisognerebbe ad esempio sapere se questa cassiera chiede documenti solo agli stranieri. E anche in questo caso potrebbe non bastare perché potrebbe essere solo sintomo di un timore nel chiederli agli italiani.

  3. Per quel che riguarda il tuo racconto mi viene da pensare che la cassiera sia andata un po’ oltre nel senso che non ho mai sentito di una persona a cui sia stata chiesta la carta d’identità per l’acquisto di alcolici.Nei bar mi sembra che i minorenni consumino tranquillamente alcolici senza tanti controlli.Detto questo ,io tendo ad essere abbastanza ingenuo e quindi mi viene da credere che la cassiera fosse davvero in buona fede quando ha chiesto la carta d’identità al tuo amico e quindi mi viene da dire che la tua reazione è stata esagerata.E’ vero anche che ,da come ho capito, il tuo amico si è sentito “offeso” dalla richiesta della cassiera e quindi quella ragazza deve almeno aver sbagliato il modo di porsi nei suoi/vostri confronti.

  4. Ringrazio tutti per i commenti al mio articolo. Puntuali e rispettosi. La mia riflessione non è nata chiaramente da un’analisi di ricerca approfondita, cosa che avrebbe richiesto – come scrivi tu Damiano – di aprire un colloquio con la cassiera o quantomeno di ritornare sul campo a raccogliere ulteriori dati da incrociare per tentare uno sguardo multiprospettico. Il punto di vista dal quale è emersa la lettura dell’evento è sicuramente carico di vissuti personali: le vostre considerazioni mi sono state utili per scavare nelle dinamiche emotive dell’interazione, cosa che d’altra parte rientra in un percorso di ricerca etnografica che voglia essere rigorosa e onesta. Come ho già scritto in Facebook, è probabile che sia avvenuto un fenomeno di identificazione proiettiva con il mio amico: ovvero che la mia reazione emotiva sia scattata a partire da vissuti personali di discriminazione e di sospetto che ho rivissuto a partire dalla richiesta della cassiera. C’è da dire, tuttavia, che anche il vissuto del mio amico era in linea con il mio e credo che il tipo di rapporto che abbiamo abbia contribuito ad attivare questa sintonia.
    L’episodio, in ogni caso, è stato uno spunto per riflettere sulla questione dello status/posizione sociale e del potere in riferimento al processo migratorio e di naturalizzazione (ottenimento della cittadinanza). E sull’umiliazione che quotidianamente – cosa che emerge dai racconti di tutti – subiscono gli immigrati e i loro figli. Probabilmente, come scrivete voi, nell’interpretazione sono andato molto oltre una lettura che poteva essere neutrale e tecnica di un gesto autorizzato e richiesto dalla legge. Tuttavia credo sia di una certa utilità iniziare a ragionare su queste dinamiche a partire dalla vita quotidiana. Mi piacerebbe raccogliere episodi di analoga specie che hanno coinvolto anche altri.

  5. Io posso raccontarti alcuni episodi che ho vissuto in prima persona, anche se forse non sono molto attinenti al tema qui trattato della naturalizzazione.
    Ho vissuto a lungo a Vienna, per motivi di studio prima e di lavoro poi. Ovviamente, in quanto italiano, godevo di una posizione privilegiata: per quanto talvolta deriso per i soliti luoghi comuni, ero comunque cittadino comunitario. Avevo però molti amici provenienti dai paesi dell’Europa dell’Est, che all’epoca (parlo della seconda metà degli anni novanta) ancora non facevano parte della Comunità Europea. Io e il mio coinquilino, un ragazzo ungherese, siamo stati spesso fermati dalla polizia per un controllo dei documenti. Cosa assolutamente legittima naturalmente, anche se magari stavamo soltanto facendo una passeggiata. Ciò che mi umiliava non era la richiesta dei documenti ma il fatto che, appena scoprivano che eravamo stranieri, questi poliziotti mutavano il loro modo di parlare. Parlavano per infiniti, come se per noi stranieri fosse troppo difficile capire un verbo coniugato normalmente; per infiniti o participi. Tipica era la domanda: Wo Meldezettel gelassen? Dove lasciato permesso di soggiorno? Per me era umiliante: sia io che il mio amico sapevamo molto bene il tedesco, io ero laureato in tedesco, il mio amico studiava filosofia e storia all’università di Vienna, abituato quindi a leggere in tedesco anche i testi dei grandi filosofi; non avevamo problemi a capire e a farci capire. Ma questo per loro non era importante: la lingua diventava un mezzo per discriminarci.
    Ho fatto tesoro di questa esperienza e cerco di ricordarmene tutte le volte che, in quanto insegnante, ricevo i genitori di alunni immigrati, con la loro fatica di capire e di farsi capire in una lingua che non è la loro.

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